I formidabili caucus,
di Christian Rocca
Ho assistito a quattro caucus, due repubblicani e due democratici, in una scuola di Des Moines. E’ stata la più incredibile e civile esperienza politica che abbia mai avuto. Ok, la procedura è folle. Ok, molti elettori non possono votare perché non possono permettersi di assentarsi dal lavoro o da casa per due ore dalle sei e mezzo alle otto e mezzo di sera. Tutto vero. Però.
La gente arriva prima delle sette di sera, dotata di spillette e cappellini e adesivi. Ad accoglierli ci sono i capi delle varie campagne che invitano i sostenitori a sedersi raggruppati in un angolo. La procedura repubblicana è semplice, si dice per chi si vota e poi si fa la conta. Per i democratici è più complicata e scenografica. C’è da formare i gruppi e da sistemarsi ai quattro angoli della sala. I clintoniani a sinistra, a destra gli edwardsiani, divisi dai pochi richardsoniani. Al centro gli obamiani. Tre indecisi si siedono accanto a me e mi spiegano perché non hanno ancora scelto. In Italia si vota in modo segreto, qui in modo orgogliosamente palese. In Italia ci sono le matite copiative e le tendine per non farsi vedere, è vietato l’uso di telefonini e non si può fare campagna elettorale entro i 200 metri dal seggio sennò ti arrestano. Dentro un caucus i manifesti elettorali sono dentro la stanza di voto, i volantini sono distribuiti sui tavoli, chiunque può approntare un comizio e si corteggiano apertamente gli indecisi e anche quelli pronti a votare per l’avversario. Non c’è tensione, ma spirito civile.
Comincia con il presidente del seggio che fa passare una busta per i contributi al partito statale e che invita l’assemblea a eleggere per acclamazione prima un presidente di seggio e poi un segretario del seggio. Un unico volontario per presidente, clintoniano, fa tirare un sospiro di sollievo a tutti gli altri. A verbalizzare una ragazza che non avrebbe mai voluto prendere quel posto.
Si chiudono le porte. Comincia la conta. Tutti si fidano di tutti. Prima si fa il conteggio dei presenti, da sinistra a destra ciascuno si alza e dice un numero progressivo. Sono 100. Poi si contano i voti. A contare sono gli stessi capi-delegazione. Nessuno protesta o contesta. Hillary prende 50 voti, Edwards 21, Obama 19, Richardson 7, sono tre gli indecisi. Richardson non supera il 15 per cento, quindi il presidente dice agli altri che hanno mezz’ora di tempo per convincere i richardsoniani e i tre indecisi a passare con loro. I 7 di Richardson passano con Edwards tranne uno con Hillary, i tre indecisi non si lasciano convincere dalla sfilata di votanti di Clinton, Edwards e Obama che cominciano a discutere con loro (e anche con me) in modo civile e composto. Alla fine due passano con Hillary e il più scettico con Obama. Si rifanno i conti: Hillary 52, Edwards 27, Obama 20. Il presidente scrive sul verbale. Una votante di Obama dice: no, mi sono sbagliata, non siamo 20, ma 21. Ok, dice il presidente di Hillary. E scrive la cifra, correggendo quella precedente. Si fa già l’assegnazione dei delegati: 2 a Hillary, uno ciascuno a Obama e Edwards. Si procede alla nomina dei delegati alla Convention. Pochi quelli interessati. "Quand’è la convention?". Si fanno avanti in quattro, si dà l’ok e si torna a casa dopo un paio d’ore passate con meno formalità di una riunione di condominio. Ma non si è votato per decidere il colore da dare al vano ascensore, ma per scegliere il presidente degli Stati Uniti d’America.
sabato 5 gennaio 2008
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